In una grande società di vendita, metà dell’ufficio amministrativo venne licenziato. Due dei ragionieri licenziati, Anna e Pier, caddero entrambi in depressione. Per diversi mesi nessuno dei due riuscì a cercare un altro lavoro, ed entrambi evitarono di fare il calcolo dell’imposta sul reddito, o qualunque altra cosa potesse loro ricordare la contabilità. Anna tuttavia conservò la capacità di amare e rimase una moglie affettuosa e attiva. La sua vita sociale non ne risentii, il suo stato di salute rimase buono e continuò a fare un lavoretto due volte la settimana. Pier invece si isolò, prese a ignorare la moglie e il loro figlioletto di pochi mesi, trascorrendo tutte le sere sul divano in una cupa ruminazione sull’accaduto, cercando di capire dove aveva sbagliato. Si rifiutava di partecipare a feste e occasioni sociali, sostenendo che non ce la faceva a vedere gente. Nulla riusciva più a strappargli una risata. Si buscò un raffreddore che durò l’intero inverno e smise di fare jogging.
Che differenza c’è far Anna e Pier? Martin Seligman, uno psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva e del benessere, ha studiato questi temi in modo sistemico per tutta la sua carriera. In particolare ha studiato e condotto esperimenti per cercare di comprendere due fra le più importanti e determinanti attitudini dell’uomo: l’ottimismo e il pessimismo. Intanto c’è da dire che quasi nessuno rientra al 100% in una delle precedenti categorie, ma tutti abbiamo un certo grado sia di ottimismo che di pessimismo.
Alcune persone riescono letteralmente a chiudere in un cassetto i propri problemi e ad andare avanti nella vita anche quando un aspetto importante di essa, il lavoro nel caso di Anna e Pier, va a rotoli. Altre lasciano che un loro problema dilaghi su tutto, fanno di tutto una catastrofe. Quando un aspetto della loro vita va in crisi, letteralmente tutto va in crisi.
Ma scientificamente qual è la differenza fra un convinto ottimista e un incallito pessimista? Seligman a tal proposito ci insegna lo schema delle 3 P:
- Personalizzazione
- Pervasività
- Permanenza
Le persone pessimiste danno la colpa esclusivamente a loro stessi (personalizzazione), ritengono che quanto successo si ripercuoterà su tutti gli ambiti della sua vita (pervasività) e, infine, che le conseguenze dureranno indefinitamente nel tempo (permanenza). Le persone ottimiste, chiaramente, vedono una situazione meno nera, diciamo grigia. Per loro l’evento negativo è solo una temporanea battuta d’arresto, e sanno che l’evento influenzerà solo una piccola parte della loro vita e che, in fondo, non è cosi catastrofico come potrebbe sembrare.
Può anche succedere che una persona dia più o meno rilevanza a un aspetto piuttosto che a un altro. Ad esempio, le persone che danno spiegazioni specifiche ai propri fallimenti, possono diventare impotenti nell’ambito della loro vita in cui hanno sperimentato un fallimento, ma mantenersi positive e risolute negli altri ambiti della vita.
Anna e Pier avevano ottenuto entrambi un elevato punteggio per quanto riguarda la dimensione della permanenza. Sotto questo profilo erano tutti e due dei pessimisti. Infatti, quando furono licenziati, entrambi rimasero depressi a lungo. Avevano però punteggi opposti per quanto riguarda la dimensione della pervasività. Di fronte a eventi negativi, Pier riteneva che essi avrebbero mandato a monte qualsiasi cosa avesse tentato di fare. Quando fu licenziato, pensò di essere un buono a nulla. Anna, al contrario, era convinta che gli eventi negativi avessero cause più specifiche. Quando fu licenziata, quindi, pensò semplicemente di non essere capace nel campo della contabilità. La dimensione della permanenza determina per quanto tempo una persona si arrende, con spiegazioni permanenti degli eventi negativi che producono un’impotenza che dura a lungo e spiegazioni transitorie che generano una buona capacità di recupero.
Pier, inoltre, era vittima della dimensione della pervasività. Una volta licenziato, si convinse che la causa era universale e si arrese in tutti gli aspetti della sua vita. Mentre quando ad Anna le venne offerto di tornare a svolgere un lavoro temporaneo in azienda, pensò: «Alla fine si sono resi conto che non potevano fare a meno di me». Invece Quando Pier ricevette la stessa proposta invece, pensò: «Devono essere proprio a corto di personale, per avermi richiamato».
L’attitudine alla positività è in parte innata in noi, ma può essere allenata in modo opportuno, affinché si rafforzi.
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