Prova a immaginare un prigioniero rinchiuso in una cella con sbarre molto spesse alle finestre, all’interno di una prigione con mura molto alte e guardie armate ad ogni angolo. Questa però è una prigione particolare: la porta della cella è sempre aperta, così il portone della prigione stessa e le guardie armate sono lì solo per impedire di entrare, ma non di uscire.
Il prigioniero è convinto che sia una solita prigione e così resta chiuso nella sua cella che, tuttavia, trova confortevole. È ben arredata, ci sono libri e DVD, la TV e persino un computer. C’è un’ottima mensa e il prigioniero può ricevere tranquillamente la visita di parenti e amici. Deve svolgere una certa quantità di lavoro noioso, ma ha i suoi hobby. Niente male come prigione! Tuttavia, il nostro prigioniero non è felice, semplicemente perché è convinto di essere rinchiuso lì dentro. Gli piacerebbe fuggire e crede che, se lo facesse, sarebbe automaticamente felice. Ma ritiene che scappare sarebbe molto pericoloso, anzi impossibile, così ci rinuncia. Il prigioniero prova altri tipo di ‘fughe’ come: cibo spazzatura, alcol, fumo, droga, sesso, ecc. Tutti questi espedienti funzionano, ma solo per poco tempo. Il ritorno alla realtà diventa sempre più doloroso e così va avanti a provare diversioni sempre più pesanti per non sentire questo dolore. Ormai la sua vita gira attorno ai rimpianti.
Milioni di persone vivono in una prigione come questa. È la prigione della sofferenza. Soffri quando subisci un torto, quando ti confronti con il male, quando ritieni di essere trattato in maniera ingiusta. Soffri anche quando fai un torto ad un altro o ti comporti ingiustamente. Così anche queste persone, come il prigioniero di prima, cercano di alleviare il malessere con distrazioni temporanee, continuando a credere di essere costretto a restare in cella. Ma è un’illusione: infatti sei libero di uscire e di andartene ogni volta che vuoi, se solo riesci a staccarti dalle distrazioni che ti sono così familiari e realizzi che la porta è sempre aperta.
“Il dolore è inevitabile. Soffrire è una scelta”
Anonimo
Lo so che starai pensando: “Figurati se sono io che scelgo di soffrire, dovrei essere proprio essere pazzo”. Ma lasciami spiegare cosa intendo.
Prima o poi ogni essere umano soffre, quindi la domanda che ti devi porre non è se soffrirai, ma piuttosto cosa ti farà soffrire. Ma ancora più importante sarà chiederti come cercherai di alleviare la tua sofferenza. La risposta alla quale giungerai determinerà se accrescerai la tua sofferenza e, di conseguenza, quella di coloro che ti circondano o se riuscirai a ridurla.
Sai che differenza c’è tra dolore e sofferenza? Un danno fisico, come una ferita o una malattia, causerà probabilmente dolore. Il dolore è una sensazione fisica ed è spesso un segnale d’allarme che dà il nostro corpo. Se tu appoggiassi accidentalmente una mano sua una stufa accesa, senza il dolore sicuramente te la ustioneresti. Il dolore, quindi, ha una funzione ben precisa: serve a segnalarti che qualcosa non funziona e che hai bisogno di attenzione e cure. Possiamo dire che il dolore è un segnale positivo, perché ci dà un’informazione importante.
La sofferenza, invece, è uno stato mentale. Come nel caso dell’offesa, per avvertirla devi essere complice volontario. Alcune persone possono infliggerci dolore contro la nostra stessa volontà, ma raramente ci possono far soffrire senza il nostro consenso.
Dolore e sofferenza, a volte, possono essere collegati. In alcuni casi, laddove il malessere causa un dolore acuto o cronico, causa anche sofferenza, proprio quale conseguenza del dolore. Diciamo che ‘soffriamo di emicrania’, ma quel che intendiamo realmente è che le emicranie causano un dolore lancinante, che a loro volta causano sofferenza. Se la tua sofferenza deriva soltanto dal dolore, allora per alleviare la sofferenza, devi alleviare il dolore. Questo è un problema medico, non filosofico.
Analogamente, le persone costantemente depresse a causa di una disfunzione cerebrale, soffrono in maniera cronica per quel disturbo. Generalmente percepiscono la sofferenza e non il disturbo, perché il cervello non soffre per la disfunzione. Tuttavia, quando assumono farmaci che correggono la disfunzione neurochimica del cervello, la loro sofferenza si riduce o, almeno, termina quella particolare forma di sofferenza. La filosofia è utile quando soffri, ma non quando sei preda di un dolore acuto.
Ricapitoliamo: il dolore è conseguenza della malattia; la sofferenza del malessere. Mentre un attacco cardiaco produce un dolore fisico, un cuore spezzato produce angoscia emozionale e sofferenza mentale. Forse non sei in grado di eliminare il dolore a comando, ma puoi certamente alleviare l’angoscia e la sofferenza, una volta che ne hai compreso la causa. Se sei in preda a un attacco cardiaco c’è ben poco che tu possa fare per guarirlo. Ma un cuore infranto è il risultato di un malessere ed esistono molti modi per ripararlo.
Un’altra cosa: mentre il dolore, in sé, può essere causa primaria di sofferenza, l’atteggiamento nei confronti del dolore, o la propria capacità di tollerare il dolore, può avere un grande effetto sula sofferenza stessa. Se provi dolore a causa di una malattia non curata o per gli effetti collaterali di un trattamento, allora, con tutta probabilità, stai anche soffrendo, Ma se il tuo dolore deriva da un’attività intensa, come scalare una parete o correre una maratona, non starai soffrendo nel senso comune del termine: puoi anche trovare lo sforzo esilarante. Puoi imparare ad aumentare la soglia di tolleranza al dolore, ma il livello iniziale di tolleranza sembra più un problema di natura fisica che non di educazione alla tolleranza al dolore stesso. Nel caso della sofferenza il problema si inverte: proprio come puoi essere influenzato a soffrire molto, ma inutilmente, puoi anche imparare a minimizzare o ad abolire la tua sofferenza.
Questo mi ricorda una storia che lessi una volta e che parla di come vengono cresciuti gli elefanti nei circhi. Quando l’elefante è ancora un cucciolo, gli viene legata una corda alla zampa e poi assicurata a un palo. Quando l’elefantino prova ad allontanarsi, capisce di essere legato e non può far nulla, per quanto ci provi. Così cresce consapevole di questo limite. Quando l’elefante diventa grande, si continua a legare al palo nello stesso modo. Anche se a quel punto l’elefante potrebbe facilmente rompere la corda, non lo fa e neanche ci prova, perché è ancora convinto che non può liberarsi. Questa è una storia simile a quella del prigioniero di prima e fa riflettere. Quante volte soffriamo e pensiamo che sia quella l’unica strada possibile?
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