Un po’ di tempo fa lessi una storia realmente accaduta. Un professore possedeva in laboratorio una lucertola amazzonica. Durante le prime settimane non riuscì a farle mangiare in nessun modo. Tentò di tutto, ma la povera lucertola stava morendo sotto i suoi occhi. Provò a darle ogni sorta di cibo: verdure, pezzi di frutta, carne e insetti. Niente da fare, la lucertola rifiutava qualsiasi cosa e si avviava al quel torpore che precede la morte. Ormai rassegnato, il professore abbandonò ogni tentativo di nutrirla. Un giorno, però, accadde qualcosa di nuovo. Il professore si preparò un panino al prosciutto, ne mangiò un boccone e poi lo appoggiò sul tavolo. Quindi prese il suo quotidiano per leggerlo, ma sbadatamente lasciò cadere un foglio sopra il panino. Fu proprio allora che la lucertola si incuriosì e si avvicino al giornale, ci balzò sopra per farne scempio e si avventò sui resti del panino, che divorò avidamente. Per il professore, che osservò incuriosito la scena, diventò tutto subito chiaro: la lucertola aveva bisogno di provare la soddisfazione di cacciarsi il cibo con le proprie abilità prima di mangiarlo. Questo era essenziale per lei. Ecco perché rifiutava tutto quello che le veniva offerto e che non doveva cacciarsi. In sostanza il suo appetito non poteva essere stimolato finché non avesse stimolato il suo istinto e le sue potenzialità.
Se questo è vero per le lucertole, è a maggior ragione vero per noi esseri umani, ben più complessi di un rettile. La nostra complessità si basa su un sistema emotivo che si è raffinato nel corso dei millenni ed è stato forgiato dalla selezione naturale. L’idea di potersi affidare a scorciatoie per giungere alla gratificazione, aggirando l’esercizio delle potenzialità e delle virtù umane è letteralmente una follia. Come le lucertole, anche gli uomini che si abbandonano in un mondo di grande benessere e opulenza, possono cadere in depressione e morire di un tipo di fame che non è legata al cibo, ma alla spiritualità.
Molte persone chiedono: «Come posso essere felice?», ma prima di rispondere a questa domanda dobbiamo capire bene la differenza tra piacere e gratificazione.
I piaceri sono immediati e ci giungono attraverso i sensi. Gli organi di senso sono molto sensibili alle emozioni positive: toccare, gustare, ascoltare, vedere e annusare possono essere fonte di grande piacere. Si possono pensare tanti esempi, da una doccia calda a un gelato d’estate, da una sinfonia a un bacio fra due amanti.
Le gratificazioni, invece, sono più durature ma richiedono anche un certo impegno per essere raggiunte. Scalare una montagna al freddo richiede all’alpinista tanta concentrazione e fatica, ma lui sa bene che in quel momento non vorrebbe stare da nessun altra parte. La felicità, intesa come eudemonia da Aristotele, è proprio questa e non è né l’inizio, né la conclusione di un’attività, ma semmai ne è parte integrante, e l’attività stessa si fa semplicemente per il piacere che se ne ricava facendola. In definitiva i piaceri hanno a che fare con i sensi e con le emozioni, le gratificazioni con l’esercizio delle possibilità e virtù dell’individuo.
Ma che vuol dire provare piaceri? Il mondo dell’economia ci offre uno spunto interessante. Il capitale è costituito da quelle risorse che si intendono investire per il futuro, per un possibile guadagno. Ma oltre al capitale economico, ne esiste un’altra forma: il capitale psicologico.
Provare piacere effimeri vuol dire consumare parte del nostro capitale. Non sono investimenti, ma una ‘spesa’. Quando invece siamo impegnati noi stiamo costruendo qualcosa per il futuro. Stiamo costruendo un capitale psicologico. Forse è questo che contraddistingue la crescita psicologica: stiamo costruendo e accumulando risorse che ci ripagheranno in un futuro. Quel perdere la consapevolezza di sé, sentirsi assorbiti, non avere più la cognizione del tempo significano che stiamo capitalizzando psicologicamente. In questa analogia il piacere è l’appagamento biologico e la gratificazione la crescita psicologica.
Visti tutti i benefici, potremmo pensare che le persone cerchino di più le gratificazioni che i piaceri, ma, invece, è l’esatto opposto. Quanti di noi preferirebbero la sera leggere un libro, piuttosto che guardare qualche serie avvincente su Netflix? Quanti di noi mangerebbero della verdura invece di un buon gelato al cioccolato?
Non voglio demonizzare i piaceri in quanto tali, ma il messaggio che vorrei passare è che scegliere abitualmente i piaceri facili piuttosto che le gratificazioni, può portare alla lunga a delle conseguenze poco piacevoli.
Ma evitare i piaceri facili e impegnarsi a ottenere più gratificazioni non è per nulla facile. Giocare tre set a tennis, intrattenere una conversazione non banale, andare in palestra regolarmente ad allenarsi o semplicemente leggere un libro, sono tutte attività che hanno una cosa in comune: richiedono un certo sforzo, perlomeno all’inizio. I piaceri invece no, non comportano sfide con se stessi. Mangiare cibo spazzatura o guardare l’ennesimo cinepanettone, non richiede alcuno sforzo. E non ci sono possibilità di fallire.
Ritorniamo alla domanda di prima: «Come posso essere felice?». Ecco che non distinguere tra piaceri e gratificazioni può portare a una vita infelice, fatta di scorciatoie e costruita solo per afferrare quanti più piaceri facili possibili. Se un’intera vita viene impiegata alla mera ricerca del momento di piacere effimero, non si conoscerà mai la vera autenticità della vita stessa e il vero senso profondo dell’esistenza.
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